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martedì 8 marzo 2016

Eros Ramazzotti: “Altro che musica di serie B. Il mio pop è l’Italia che va”

«È il pubblico che ti dà il successo, ma poi te lo devi meritare», dice Eros Ramazzotti: lui se lo merita con un programma mondiale di concerti così intenso che impressiona anche solo a leggerne le tappe. Da oggi a metà ottobre, il suo Perfetto Tour va anche in Siberia, a Celjabinsk, capitale sovietica dell’industria pesante dove tre anni fa un meteorite esplose in cielo, e si conclude a Los Angeles nel Microsoft Theater, sul palcoscenico al coperto più grande d’America. Intanto, però, c’è ancora molta Italia, oggi a Roma, domenica a Torino e lunedì a Milano. Questo tour segna una svolta per lei e la sua musica dal vivo? «Si dice sempre così ogni volta che si esce con un disco e con un tour, anche perché se non lo si pensasse ogni volta non varrebbe la pena farli. È vero però che mi sento più forte fisicamente, ho meno paura di affrontare i concerti, anche grazie agli arrangiamenti di Luca Scarpa mi piace come suoniamo, mi diverte tornare ai successi del passato, e la direzione artistica di Luca Tommassini mi dà una sicurezza in più». Di sicurezza c’è bisogno, se si attraversa il mondo con uno spettacolo. «Ho calcolato che da quando sono ripartito, il 14 febbraio da Barcellona, ho fatto 40 mila chilometri. Però è il bello di questo mestiere, ti permette di andare all’estero e mostrare che anche noi italiani abbiamo qualcosa da dire, che non siamo i soliti pasticcioni, o rompicoglioni, ma possiamo essere gran lavoratori». Ha fatto grandi complimenti a Ennio Morricone per l’Oscar, un altro di quegli italiani che hanno sempre e molto lavorato. «Ce ne sono tanti come lui, anche a Roma, al contrario delle stereotipo. Gente che non molla mai, che spacca il secondo... Lui è un maestro, un creatore di musica, tra l’altro non così tradizionale come potrebbe sembrare. È la risposta al “bruttume” che ci circonda: ecco, abbiamo coniato un’altra parola, ora la proponiamo all’Accademia della Crusca». Avete qualcosa in comune, lei e il Maestro... «Mi fa piacere sentirlo, ma in Italia se fai musica pop sei di serie B, da buttare via. All’estero mi paragonano con i grandi del rock, e magari Vinnie Colaiuta, che ha suonato con Frank Zappa, non si schifa di stare nei miei dischi. Da noi nessuno se ne accorge. Io però sono orgoglioso di quello che faccio». Dopo tutto quello che è successo, in Italia non sappiamo ancora apprezzare il pop? «Dentro di me, io sono un bluesman - dicono anche che suoni piuttosto bene -: ho scelto di fare il pop per arrivare alla gente. Il problema del Paese è quella nicchia piccolina di intellettuali che ha nostalgia del piattume degli Anni 70 e 80 e non si rende conto che oggi anche i vecchi cantautori cercano disperatamente di essere pop per andare in tv». Confessi, un disco da chitarrista blues l’ha registrato e nascosto in un cassetto... «No, non sono capace di registrare da solo. E poi ho paura di essere giudicato, continuo a fare le mie canzoni e a dare importanza alla voce: non sono americano, immagino già i giudizi che riceverei. Il blues lo suono di nascosto, con gli amici». In un anno come questo, così denso di concerti, riesce a suonare o addirittura a scrivere? «È molto difficile ovunque, ma in Italia è impossibile, a ogni tappa ho i camerini pieni di amici prima e dopo il concerto. E io non sono come Vasco, che dopo lo show fa un giro, saluta e se ne va. I concerti ti portano via l’anima». Quanto costa fare un concerto, dal punto di vista fisico ed emotivo? «Più di una partita di calcio, che in fondo ti richiede solo 90 minuti di fiato. Il canto è fondamentale per me, ed è faticoso. Poi non salto come Jovanotti, ma mi muovo molto anch’io. Il concerto è impegnativo, un po’ come una partita di Bonucci».

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