Non ci siamo perse una serata negli ultimi trent'anni, ma il Festival è maschio. E quindi ingrato
Il problema di questo Festival di Sanremo, come di tutte le storie d’amore irrimediabile, è stato l’ultimo quarto d’ora.
Quello in cui hanno proclamato vincitore Il volo, trio di tenori a stento ventenni, il cui senso può essere individuato solo nella necessità di assicurare accompagnamento musicale adeguato alle nozze di North West, di stirpe Kardashian, e delle altre spose ricche e pretenziose di prossima generazione.
Fino a quel momento, per cinque interminabili serate, al festival avevo perdonato tutto. La consacrazione di Albano e Romina a definitiva power couple d’Italia: neanche gli Underwood di House of Cards sanno allestire uno spettacolo così misurato di complicità e stagionato disgusto.
L’imposizione di Biagio Antonacci come superospite da onorare a squarciagola: persino io, che di canzoni sceme ne so tante, di Se io, se lei conosco appena il ritornello.
L’immancabile collegamento con la Stazione Spaziale Internazionale: Samantha, quando torni a casa? Non ne possiamo più.
La coerenza neocatecumenale come scelta stilistica: dai sedici pasciuti figli degli Anania ai signori Manenti sposi anni Cinquanta passando per i girocollo di Emma, valletta penitenziale. E poi l’ostinazione dei comici a non far ridere, di Carlo Conti a parlar di morti, di Arisa a conciarsi da maschera Kabuki che sbuffa.
Avevo perdonato tutto, pure gli ascolti bulgari. In cambio mi sarei accontentata di Nek al primo posto, e dell’illusione che Sanremo in fondo avesse un debole per quelle come me, che da giovani si credevano più intelligenti e adesso tifano per chi è invecchiato meglio, ma comunque non hanno mai perso una serata.
Invece hanno vinto tre ragazzini brutti ma buoni, che vendono già dischi a milioni. Dischi che io non canterò mai.
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